Gianfranco Tognarelli |
Città di Buti Ci sono nella pittura di Gianfranco Tognarelli due filoni che in questi ultimi tempi vanno confluendo, risolvendosi in termini unitari tanto dal punto di vista stilistico quanto da quello tematico ed espressivo. Il primo filone, che è di più antica data avendo avuto una più continua influenza nel lavoro dell’artista pontederese, è quello che potremmo chiamare realistico, ovvero una pittura di genere che trova le proprie radici nella tradizione toscana ottocentesca e primo novecento, e che si variega in modi stilistici diversamente riferibili a fonti moderne di collocazione francese, da Cezanne alla scuola di Parigi. Anche sul piano dei soggetti, dal paesaggio alla natura morta alle composizioni di figura colta soprattutto in posa da ritratto,le opere attestano tale appartenenza, e vengono in mente non solo gli Ulvi Liegi e i Puccini della scuola livornese, ma un artista fiorentino colto e sensibile come Gordigiani. Si ricorderà, del resto, che a tali caratteri rispondeva anche una componente del panorama di Novecento. Il secondo filone è anch’esso, in qualche modo, situabile in un contesto novecentista, però per forme espressive che si affidano alla suggestione del simbolo. Si tratta d’un gusto per le composizioni di ampio respiro che mirano a figurare con modi allegorici, cui Tognarelli si è dedicato in questi ultimi tempi, avendo presente la lezione di un suo ideale maestro, Anton Luigi Gaioni, un artista milanese che fu a parigi negli anni venti e che finì i propri giorni (pressochè dimenticato, e a torto) a San Miniato, dove poterono conoscerlo e frequentarlo Tognarelli e tutti gli altri amici pittori attualmente riuniti nel ”Gruppo di Buti”. Mi pare che tra questi due poli si collochi il nostro artista, beninteso avendo un ottica e una sensibilità diverse e personali, specialmente rilevabili nella peculiarità dei tagli visualizzatori, che tengono presente una cultura d’immagine dominata dalla fotografia e dal cinema, cui corrisponde la tecnica della focalizzazione ottica d’un centro e del dissolvimento periferico, specialmente nelle vedute paesaggistiche. Anche il senso della materia pittorica, che è qui densa e si distende e si distende in forme larghe, è una peculiarità di Tognarelli che si apprezza avendo presenti le vicende della cultura artistica moderna, per quanto l’ambito informale in cui si è svolto il discorso sulla materia rimane del tutto estraneo all’esperienza di Tognarelli. Ed è pur vero che l’artista pontederese tende a risultanze di sintesi plastica che ancora una volta rimandano a Novecento, ove si tenga però conto del gusto per un colore che contempla tanto le finezze di registro tonale quanto le sonorità timbriche. Un dipinto come “Natura morta con panno rosso” esemplifica in modo esauriente le peculiarità stilistiche elaborate da Tognarelli con una progressiva decantazione della materia e con una corrispondente semplificazione dell’immagine agli elementi compositivi essenziali. Una tendenza dell’artista pontederese è difatti l’accumulazione nello specchio visuale di una quantità di elementi e notazioni pittoriche che determinano una sorta di horror vacui , e producono una pittura sovraccarica, non sempre risolta poeticamente. Su tale entroterra si profila il filone delle composizioni allegoriche, in cuisi risolvono diverse istanze aperte da Tognarelli. In questa mostra butese possiamo ammirare alcune opere di questo genere, in particolare la complessa composizione “Il sogno” che si dischiude come una scena teatrale ove si rappresenta, appunto, l’accadimento irreale del sogno, e soprattutto l’enigmatica, suggestiva composizione “Alla luna”, che è un evento davvero lunare, di musicale incanto, magico e misterioso colloquio tra l’uomo che suona e l’ambiente che lo circonda, la casa cui pare rivolto il concerto e il mistero notturno che fa da cortina alla scena. In questa direzione credo che dovrà sempre più realizzarsi il lavoro di Tognarelli, perché si traducano in chiave pienamente creativa le premesse di serio impegno e di studio dell’artista fissate con ampia ricerca pittorica in questi anni formativi affrontati con convincente professionalità. Nicola Micieli 1987
Itinerari pittorici Di Gianfranco Tognarelli si sottolineerà prima di tutto la serietà dell’impegno pittorico. Non è solo l’applicazione silenziosa sulla tela, quel senso di riserbo antimondano che lo rende estraneo alle mode e piegato a perseguire un proprio ideale artistico i cui referenti sono per lo più storici. E’anche - o sopratutto – il suo continuare a credere nella pittura come atto creativo aperto alla comunicazione del ventaglio dei contenuti esistenziali. Il ricorso sistematico alla figura è un dato in tal senso rivelatore, nei dipinti recenti. Ai generi pittorici un tempo frequentati, quali la natura morta di gusto cezanniano, il ritratto il paesaggio si è sostituito quello della figura fortemente caratterizzata in senso plastico, come architettura corporale e membratura scultorea sulla quale definire il linguaggio pittorico. Nella presenza umana è la testimonianza di una volontà espressiva che non vuole tradire i contenuti interiori, poiché è nelle figure un senso di verità anche dove l’impostazione compositiva parrewbbe denunciare tentazioni accademiche, intenzioni di studio, mentre sono vigorosi proponimenti simbolici di tipo orfico, realizzati con una notevole sensibilità per i valori del tessuto pittorico, vera e propria epidermide da carezzare per coglierne fremiti e impulsi. Di eplicito contenuto orfico sono due dipinti di flautisti, l’uno rivolto ad ammansire le belve, l’altro intento alla musica a un tal grado di rapimento da lievitare. Ulteriori invadenze orfiche sono le figure che agiscono o posano nell’indefinito paesaggio, ove prosperano alberi dalle fattezze vagamente antropomorfe. Tognarelli recupera in tal modo, dilatando oniricamente l’immagine ed estenuando cromaticamente il tessuto pittorico, la lezione novecentista, sapendosi ugualmente distanziare dalla grazia affusolata di Gajoni e dagli straniamenti della metafisica dechirichiana. Ma non si tratta di una rievocazione rituale, tanto meno di un revival mondano. Il Novecento mè piuttosto un trait-d’union tra la tradizione moderna e quella antica, dimensioni complementari per un artista che intende la contemporaneità come continuità della pittura incentrata sull’uomo e sulle tensioni psicologiche e intellettuali che lo agitano. Con siffatte motivazioni ideali, Tognarelli sviluppa un suo discorso sulla pittura, che è un approssimazione lenta alla forma, attraverso successive stesure e riprese della materia, sino alla saldezza della membratura e alla densità dei colori e delle luci che determinano il clima idoneo a trasformare l’immagine in visione simbolica. Nicola Micieli 1991
Gianfranco Tognarelìi immerge le sue figure nel paesaggio, scomponendole secondo la morfologia della terra e delle piante e assimilandovele anche sul piano cromatico, in una evidente comunione panica. Talora i soggetti stessi rinviano a una dimensione orfica, figurandosi scene di incontro tra uomini e animali legati da una musica ammaliante. Un retroterra futurista, di tipo boccioniano, si percepisce in trasparenza nella materia sontuosa di questi dipinti dal respiro solenne novecentista.
Nicola Micieli 1996
Incisione pisana del novecento1998 ….Anche Gianfranco Tognarelli ha un rapporto abbastanza intimo o almeno di delicata enunciazione visiva, con le cose e la realtà della natura cui si rivolge con una certa sensibile riservatezza, e vorrei dire quasi con timore di invadere territori interdetti e quasi di violare la sfera intima di una persona. Dico questo considerando la levità del segno e la parca semplicità delle trame grafiche che utilizza nelle sue incisioni, qualità massimamente apprezzabili nel garbato Ramoscello nel bicchiere (1974) che non in composizioni più ambiziose, quanto a struttura grafica e a impianto visivo, nelle quali il rapporto intimo con la realtà si dissolve, cade la tensione emotiva e si stempera l’afflato poetico che alimenta l’applicazione desta e creativa sulle opere di ampio respiro. Nicola Micieli 1998 |
Un viaggio dal reale apparente al reale sommerso
Raccolgo e pubblico qui una cospicua scelta, la maggior parte inedita, di incisioni eseguite all’acquaforte e a tecnica mista acquaforte/acquatinta da Gianfranco Tognarelli. Sono ottantotto titoli scalati dal 1970 al 2014. Credo costituiscano meno della metà dell’intera sua opera calcografica. L’approssimazione poiché Tognarelli non ha tenuto un preciso inventario delle lastre, e relative stampe spesso tirate in più versioni, che sono andate come stratificandosi negli spazi al terreno del suo studio pontederese. Alcune incisioni, soprattutto varianti di stato e di stampa già saggiate, valutate e consegnate all’oblio, giacevano in ordine sparso nei cassetti o raccolte in cartelle stipate senza criterio sugli scaffali. Si può dire che Tognarelli stesso le abbia riscoperte, con la mia complicità. Per le mie esigenze di curatore, difatti, egli ha dovuto mettere mano ai suoi depositi e finalmente avviare il riordino delle molte stampe – mai esposte – che aveva accantonato in modo per lo meno improvvido. Abbiamo così compiuto insieme la prima approfondita rivisitazione della sua opera incisa. Ci voleva proprio l’occasione della selezionata antologica qui documentata perché Tognarelli le dedicasse questo tipo di attenzione! Nel passato, preso dal suo esplorare ogni spiraglio all’alterità intravista in corso d’opera, non si era mai veramente curato di posizionarsi a debita distanza e considerarla nell’insieme e nelle forme organicamente concatenate di fase in fase, del suo articolarsi e svolgersi lungo decenni. La ragione di fondo di tanta “distrazione” sta insomma nella disposizione di spirito con cui Tognarelli ha dato seguito operativo alla propria vocazione incisoria. Diversamente dalla pittura alla quale non ha fatto mancare la visibilità esterna e il confronto delle proposizioni linguistiche e poetiche, l’incisione l’ha coltivata, per così dire, nel privato. Ha inciso anzitutto per un bisogno personale di rispondere ai sempre nuovi percorsi suggeriti da una ricerca tutta interna ai processi genetici ed evolutivi della forma grafica, sollecitati in primis da un’emozione, uno stato dell’animo che alla fine qualifica poeticamente la visione. Per questo riattivarsi continuo della curiosità e della suscitazione interiore, Tognarelli ha sempre considerato un approdo temporaneo ogni pur rilevante acquisizione – maturata nella coerenza del linguaggio e della forma, su un determinato versante stilistico – sulla quale altri si sarebbero stabilmente ancorati, per tornarvi e ritornarvi magari fino all’estenuazione della cifra stilistica. È bene tener presente questa considerazione per il seguito del nostro ragionamento, poiché almeno in parte, quello spirito giustifica la forbice eccessiva che in verità si riscontra tra l’entità e lo spessore dei valori acquisiti e la loro rispondenza in termini di divulgazione e notorietà, quindi di riconoscimento. In sostanza, incidere è stato per Tognarelli sperimentare un ventaglio di declinazioni della forma grafica. Sia nelle indagini relative ad aspetti della natura, e della “fabbrica” umana, riconoscibili in termini figurali. Sia nelle analisi ravvicinate tanto da rendere ambigui i riferimenti al reale. Sia quando incidendo in termini linguistici che possono dirsi astratti e parainformali, lo sguardo sembra addirittura immergersi nel mondo sotterraneo a incrociare gli stati di mutazione della materia. Della pur ambigua riconoscibilità di naturalia e artificialia scompare allora ogni traccia, ma da quei processi o dinamiche sommerse si generano mutevoli conformazioni nelle quali Tognarelli intravede, e fissa sulla lastra, immagini criptiche in formazione, appunto, come d’una scrittura cifrata ideografica, talora non prive di una loro dilatazione visionaria. Ultima considerazione, nello specifico del linguaggio dei segni e nella riduzione del bianco e nero, Tognarelli ha inciso in parallelo e in sintonia di intenti formali con la pittura avviata alcuni anni prima, alla quale peraltro non ha fatto mancare adeguati spazi e occasioni di visibilità. Come se nella pittura, e in sostanza nell’alchimia del colore, più compiutamente riconoscesse la propria identità di artista il cui fine è la “pura essenzialità” dell’essere in quella della forma pittorica, e grafica, che dell’essere coglie lo strato transitorio, il divenire, nel reale apparente e in quello sotteso ma non meno vero, che diciamo astratto perché non vi riconosciamo le apparenze note del mondo fenomenico. Percorso parallelo, quello incisorio, ma non omografo o in qualche modo imitativo delle componenti pittoriche di più immediata percezione, beninteso! Tuttavia mirato a trovare sulla lastra variazioni formali, tessiture materiche, situazioni luministiche, dunque modulazioni plastiche omologhe a quelle offerte dalla materia pittorica. Tra le altre qualità, in assenza dei colori, Tognarelli ha curato con particolare attenzione i registri “cromatici” sulla scala dei grigi, dal nero profondo al bianco assoluto del foglio, per raggiungere nelle partiture grafiche quei valori tonali che sono alla base della sua pittura, e ne dichiarano l’appartenenza formativa allo spirito novecentista. La qual cosa dipende essenzialmente dall’alchimia delle calibrate morsure e dalla combinazione e frequenza dei segni tratteggiati o granulati e variamente intessuti. Preso dalla spirale del laboratorio, Tognarelli si è dunque interessato poco alla registrazione conseguente e alla doverosa rappresentazione dei propri esiti incisori. Che per l’evenienza espositiva era ormai necessario rivisitare nel loro insieme. Per sua sfortuna, vista la fatica che l’operazione ha comportato. Non si poteva ordinare una mostra così composita come questa qui documentata, senza un quadro attendibile e documentato del suo lavoro calcografico. In primis, ovviamente, occorreva vedere le incisioni, quindi comprenderne i processi formativi, conoscerne lo sviluppo sul piano del linguaggio e dello stile e acquisire i dati della loro storia esterna. Avviata dunque la ricognizione, il primo approccio “de visu” bastò a incrinare la mia presunzione di conoscere meglio di altri il panorama incisorio del territorio pisano, nel quale, posso oggi affermarlo, egli si colloca tra i maggiori del secondo Novecento. Tognarelli apriva più o meno a caso le cartelle che aveva predisposto sul tavolo. Altre che gli venivano a mente, andava man mano recuperandole, non senza difficoltà, qua e là nello studio. E mentre mi mostrava le incisioni commentandole brevemente, non senza appuntarle d’un qualche avviso o riserva, quasi non una lo soddisfacesse in pieno, cresceva la mia sorpresa – assieme a un pizzico di irritazione – nello scoprire non, come lui, qualche lastra dimenticata, bensì un corpus incisorio più che rispettabile, del quale ignoravo l’entità materiale e la ricchezza dei temi e delle soluzioni grafiche. Al contrario dell’opera pittorica sulla quale ero più volte intervenuto e che potevo dire di conoscere abbastanza bene, mi rendevo conto di avere appena un’idea, per giunta distorta, del Tognarelli incisore. Invero, del suo profilo calcografico conoscevo solo una cartella con una ventina di stampe. Quella che mi aveva mandato, su mia richiesta, nel 1995, quando cominciai a lavorare al volume Incisione Pisana del 900. Eventi e protagonisti, in vista della rassegna omonima che si tenne tre anni dopo in occasione del centenario della nascita di Giuseppe Viviani, del quale presentavo tutta l’opera incisa e il relativo catalogo generale. Le incisioni che mi proponeva, alcune delle quali dovevano rappresentarlo nel libro e nella mostra, erano tutte più o meno tenui e diradate quanto a morsura e tessitura del segno. Chissà perché aveva pensato di dare un’immagine così stemperata, come priva di nerbo, della sua visione incisoria! Tale, almeno, fu l’impressione che ne ebbi, se ne parlai nei termini « ... di un rapporto abbastanza intimo o almeno di delicata enunciazione visiva, con le cose e la realtà della natura ... ». Che è una, non la sola modulazione del suo ventaglio espressivo. La mia prima visita nello studio bastò a smontare l’univocità di quella lettura. Constatavo difatti che già alla metà degli anni Novanta il suo repertorio, nonché monocorde per quella certa vaghezza pur poetica del segno, appariva alquanto variegato e certamente non privo di “carattere”. Non mancavano insomma le partiture eseguite con quella incisività calibrata ma decisa grazie alla quale il segno si fa vigoroso e le tessiture giustamente contrastate. A parziale discolpa del mio parlare sprovveduto di allora, posso invocare direi la totale riservatezza con cui Tognarelli aveva, sino a quel punto, condotto la propria pur intensa ricerca incisoria, mai mostrata in una qualche occasione personale o collettiva. Si può dire che per una buona metà della sua storia egli sia stato un incisore pressoché “sommerso”. Come se, lui pittore altrettanto concentrato e operoso, non avesse dedicato all’arte dei metalli e degli acidi il tempo e l’assiduità d’un incisore esclusivo. Peraltro, in sovrappiù di tempo, ha sempre sottoposto di persona al torchio le tirature oltre che le prove di stato, di inchiostrazione e di stampa. Prove numerose, come nel caso di Luigi Bartolini e di quanti incidendo esperimentano e verificano un certo numero di variazioni linguistiche e formali, dunque sulla base non di una pur personale convenzione rappresentativa, bensì d’una sintassi aperta suscettibile di raccogliere gli input del groviglio di segni dai quali parte la ricerca della forma latente, per interpretarli e ordinarli in partiture inedite, sulla base dell’emozione che ne suscita e governa il flusso. Parlare di Tognarelli come d’un incisore “sommerso” non è un modo di dire. Difatti, nel 1995 del mio primo approccio “de visu” alle sue incisioni, per la prima volta in assoluto egli ne proponeva alcune – in tandem con la pittura, per non dire ai suoi margini – in una mostra personale tenuta a Pontedera, la sua città. Dopo l’esordio in sordina, si doveva attendere il 1998, per rivederle in rassegna al Museo delle Cappuccine di Bagnacavallo e nella ricordata mia ricognizione d’un secolo di incisione nel territorio pisano. E da quella data sino alla presente sua prima mostra personale, si sono succedute non fitte, tuttavia continue le partecipazioni a rassegne e premi di prestigio in Italia e all’estero. Si rimane sinceramente perplessi per la totale latitanza espositiva delle incisioni fino al 1995, quando dal lontano 1966 Tognarelli pittore partecipava a rassegne e premi e nel 1975 esordiva in personale alla Galleria Il Gabbiano di Gallarate. Avrebbero giustificato più di qualche sortita, insomma, la qualità degli esiti incisori e la varietà delle soluzioni formali maturate sino allo scorcio degli anni Novanta, quando Tognarelli chiudeva la sua prima stagione con il passaggio alla modalità dello sguardo che abbiamo detto “ravvicinato” sul reale e addirittura “sprofondato” nella materia. Peraltro in quegli anni era ancora vivo l’interesse del mercato e del collezionismo per la grafica e segnatamente l’incisione. A quella data Tognarelli aveva inciso con segni tratteggiati e incrociati talora misti a diradati granuli, avendo una concezione non puristica o specchiata della lastra, nel senso che non disdegnava eventuali “difetti” – graffiature abrasioni ossidazioni – del metallo e relativi depositi grafici sulla carta, una quantità non trascurabile di acqueforti e di soggetti: numerosi paesaggi naturali e antropici, non poche nature morte e più rare figure. Con le aperture ambientali a tutto campo o in alzato e i primi piani su cose e presenze del reale, Tognarelli si muoveva a suo modo nel solco della tradizione rappresentativa più autonoma e poeticamente connotata del Novecento. Penso a referenti ideali quali Leonardo Castellani, Giorgio Morandi, il prediletto Luigi Bartolini. Ma ancor prima, per lui toscano, non si può non ricordare Giovanni Fattori, il capostipite rinnovatore della tradizione moderna italiana presso la quale, oltre le acquisizioni anche tecniche dell’apprendistato in Accademia, Tognarelli si era formato al linguaggio e direi al carattere espressivo dell’incisione, un mezzo invero rigoroso e selettivo che non consente approssimazioni tecniche e poco concede alle pur estrose improvvisazioni. In effetti, soprattutto perché interessato a sperimentare la tipologia, la morfologia e le molteplici combinazioni del segno, anche nelle partiture di più dichiarata aderenza al reale Tognarelli indagava e sottolineava le sottese strutture e le dinamiche interne al paesaggio naturale e antropico prescelto. Al paesaggio e a quelle sue specificazioni analogiche che estranee alle appartenenze di genere pittorico, per Tognarelli sono state, in definitiva, le nature morte talora anche ambientate, e le composizioni con figura. Nelle nature morte le cose, mai diligentemente composte sul piano per riprodurle magari segnandone i profili esterni e interni con un disegno o una trama grafica che in qualche modo le definisce e le blocca nello spazio, hanno l’animata morfologia del paesaggio non da altro determinata e rivelata che dal calibro e frequenza dei segni e dall’incidenza anche fortemente contrastata della luce. Vero e proprio agente drammatico della scena, la luce, come nel caso del Cestino con guanti o di Cardi, acqueforti entrambe del 1995. Quando alle composizioni con figure, le effigi umane paiono addirittura emanazioni del paesaggio. Sia perché al pari delle nature morte, ne partecipano l’accidentata morfologia, in ciò esprimendo una concezione sostanzialmente orfica della presenza umana nella natura vivente, come in Nudo e ambiente del 1998. Sia perché di origine e formazione geologica, dunque intrinseco paesaggio, sembra il corpo del Nudo rupestre del 1994 o l’ancor più scultoreo Totem del 2003, figura primordiale che pare addirittura cavata dalla roccia. Difficile parlare di rappresentazione iconica anche per questa che abbiamo chiamato la stagione figurativa dell’opera incisa di Tognarelli e che si estende fino allo scorcio degli anni Novanta, con qualche ripresa, sempre formalmente singolare, negli anni a seguire. Per esempio nel 2002 con la scansione ritmica delle figure che in No global totem e in Danza, si direbbero di originale memoria cubo-futurista, inglobate in uno spazio totale letteralmente segmentato e tempestato di segni. O ancora nel 2003 con The tichet e consimili incisioni, nelle quali le figure sono come delineate per striature in negativo. Oppure nel 2006 con le Due figure zigzaganti che si smarcano su un fondo come traforato a rabesco, sempre parte di una piccola serie. O infine, sempre del 2006, con il groviglio di corpi massicci vagamente antropomorfi, che però Tognarelli chiama semplicemente e solo Forme, ed è l’esplicita dichiarazione di quel che con il nuovo secolo, senza più approssimazioni o ammiccamenti d’ordine visivo, andava scoprendo e catturando nella materia e tra le pieghe della tessitura incisoria: la genesi e la metamorfosi della forma grafica che della realtà svela aspetti altri da quelle apparenti, non astratti ma “estratti” secondo l’etimo, ossia mirati a quella “pura essenzialità” che a specchio dell’immagine sottile interiorizzata dell’essere, Tognarelli ha perseguito anche nella pittura. In modo certo più pertinente, anche per una parte considerevole della stagione figurativa, come in senso pieno per quella non astratta, ma di immagine liminare, alla soglia tra il sensibile e il mentale, che giunge a oggi, si dovrebbe parlare di proiezioni dell’animo suscitate dall’emozione, anziché di rappresentazioni iconiche, in ragione del dispiegarsi più o meno regolare e serrato dei segni, più o meno modulato e mosso dei fasciami e delle tessiture grafiche. Diversificazioni, queste, squisitamente espressive, ossia non dettate dall’esigenza di restituire climi locali e apparenze naturalistiche. Segni e tessiture diversamente visitate e qualificate dalla luce. La quale le assorbe nel loro insieme come in Sergio che dipinge del lontano 1970. Oppure le chiazza a zona come in Viti del Riaccio del 1978. O ancora le distribuisce a registri orizzontali e alterni dei bianchi della carta e dei neri incisi, come nel limpido Alberi. Studio di Buti del 1997. O infine addirittura le smaterializza, che è il caso del “focus” di gusto bartoliniano sulla Conchiglia in campo scuro del 1992. Segni e tessiture debitamente graduate nella strategia dei contrasti luministici e delle accentuazioni plastiche della forma, dal più fine e arioso tratteggio che si registra in Ricci di castagne e foglie del 1985 e altre, ai numerosi prospetti campestri e boschivi o anche alle nature morte la cui vigorosa struttura è data dall’irrompere sulla scena di folgoranti fasci di luce portata, ma che sembrano filtrare dal profondo, provocando un effetto di controluce incongruo ma efficace, in quanto crea veri e propri cortocircuiti visivi di intensa drammaticità. Proiezioni dell’animo, dunque, nella mutevole animazione della scena. Proprio nel senso delle due versioni, futurista e cubo-futurista, degli Stati d’animo di Umberto Boccioni, nei quali la scomposizione dinamica ondulare della forma fluente traduce le situazioni psicologiche degli addii, di chi parte e di chi resta da e in una stazione che in verità è metafora della vita. Sono proiezioni dell’animo, la seconda in tutta evidenza di spirito boccioniano anche per la scansione ritmica della partitura, le due incisioni – Paesaggio. Astrazione del 1999 e Luce radente del 2002 – che in queste pagine aprono la seconda stagione incisoria, quella che abbiamo detto dello sguardo ravvicinato sul reale e penetrante, nella quale Tognarelli introduce l’acquatinta tendenzialmente pittorica, al fine sostanziale di graduare i valori tonali e la resa plastica del bianconero, integrando anche in modo estensivo la trama segnica dell’acquaforte. In Paesaggio astrazione – ma potremmo dire, con Mondrian, “astrazione di un paesaggio” – lo stesso titolo esplica il processo di riduzione al limite tra il sensibile e il mentale, di un luogo del reale del quale, in definitiva, si assume l’essenza formale. Tognarelli gioca su un bel ventaglio tipologico di morfemi e stilemi che utilizza e combina nei suoi percorsi di riduzione, in presenza anche analogica o in assenza d’una qualche riconoscibilità dell’immagine. Immagine che egli intuisce latente nel coacervo confuso dei primi segni depositati sulla lastra. Ai quali aggiunge altri segni, dapprima d’un certo automatismo gestuale, quindi sempre più controllati e mirati in corso d’opera, man mano che riconosciuta l’immagine, la conduce alla sua configurazione. Di tessitura segnica parainformale, basata sulla molteplice funzione d’uso del tratto ampiamente applicata nella prima stagione, nel caso del Paesaggio astrazione. Di sfaccettatura prismatica come il “paesaggio” parietale minutamente graffito d’una cava o miniera a cielo aperto, che la luce radente attraversa e frantuma e rende dinamica in termini parafuturisti, nel caso di Luce radente, appunto, un cui omologo stilistico è Danza, eseguita sempre nel 2002 ma incentrata sulle figure da cubismo sintetico dei danzatori che paiono essersi formate dal contesto. Che a Tognarelli interessi ora esclusivamente il molteplice manifestarsi e divenire della forma grafica, anche nelle incisioni di chiara o ambigua persistenza figurale, lo dice la frequenza con cui assegna alle opere titoli che appartengono alla fenomenologia e allo stesso lessico del laboratorio artistico. Nomino Segnica e Lacerazioni del 2003; Forme spazio e Groviglio del 2004; Composizione, Luce radente, Percorso di forme, Fluttuazione e Groviglio del 2006, e aggiungo Percorso interiore e Dal segno al sogno che dichiarano la qualità o il rimando spirituale di queste immagini del reale; Aggregazione e Caos chiaro del 2007; Caos vivace del 2008; In esterno e In interno del 2011; Segni in libertà del 2012; Segni del tempo, Piani e Dicotomia del 2013; infine Nell’ombra e Continuità dello scorso anno. Talora, per immagini che appaiono analoghe se non omologhe sul piano formale a quelle designate con il lessico del laboratorio artistico, Tognarelli titola con termini che in qualche modo le connotano, rimandando a situazioni psicologiche, luoghi fisici e poetici, climi o stagioni che si possono riconoscere analogicamente, cui si può risalire diciamo per via intuitiva ed evocazione simpatetica, dunque in modo soggettivo, non certo perché all’enunciato corrispondano elementi morfologici, tanto meno figurali che fungano almeno da indizi oggettivi. Del resto, lo stesso Tognarelli, ad elaborazione avanzata della partitura se non addirittura a posteriori, ha riconosciuto per la medesima via un archetipo visivo, ossia poeticamente interiorizzato, di luoghi a lui familiari. Per esempio nel Paesaggio toscano del 2005 alla cui morfologia fisica e direi quasi ai sedimenti del terreno fa pensare il mix sapiente della granitura all’acquatinta tonalmente dosata, del diffuso puntinato e più parco tratteggio all’acquaforte e delle sparse riprese di neri più densi e morbidi che mi sembrano eseguite alla puntasecca. Oppure in Tracce di Marana del 2011, paesaggio di più omogenea conduzione granulare della tessitura segnica e dalle forme sintetiche come metafisicamente sospese nel silenzio dell’ora e nella solidificazione della luce. O ancora in Visione sempre del 2011 che partecipa delle qualità formali e della sospensione di Tracce di Marana, ed è un singolare “paesaggio” d’ambiente con simulacri che consente più d’una chiave di lettura. Quasi un paesaggio è invece, per riconoscimento credibilmente a posteriori, la topografia di un’incisione del 2007, la cui fascia centrale plasticamente modulata e strutturata a modo di tarsia, si profila come un monte crestato sul fondale d’un presumibile cielo. Altrove, con analogo meccanismo identificativo, nel 2008 chiama Rocce un frastagliato anfratto e deposito d’apparenza mineraria visitato – o forse invaso? – da nere strie di segni in evoluzione falcata nello spazio. Sembrano presenze aliene, le stesse che nel Notturno occupano in alzato il primo piano della scena, sovrapponendosi a un più ampio aggregato di forme tra il chiaro e il grigio: un teatro, insomma, nel quale Tognarelli evidentemente scorge la competizione in atto tra le tenebre e la luce. Su questa falsariga potremmo continuare l’escursione nel mondo che abbiamo detto del “limen”, tra realtà e prefigurazione visionaria, delle incisioni di Tognarelli seconda stagione. Per esempio con Voglia di libertà del 2009, dove ai neri segni falcati assegneremmo il desiderio di fuga da una qualche costrizione materiale o psicologica. O con Ottobre del 2010, vero e proprio paramento di segni tissurali e di segni crittografici sul quale si svolge il groviglio di strie luminose altrove chiaramente delineate, qui residuali e come un’impronta assorbite nel prospetto paesistico. O infine con Ombre della sera del 2012, sorta di enigmatico antro nel quale con logica rovesciata ma squisitamente teatrale, le ombre non sono quelle che si addensano o si annidano nei recessi della scena, ma quelle – una delle quali sembra proprio una larva antropomorfa – che investite dalla luce, si affacciano al proscenio e levitano nello spazio, misteriose presenze che non escludono una loro scaturigine dal profondo. Potremmo seguitare, ma bisogna concludere. E lo faccio osservando come la distribuzione a zona dei fasci o registri di luce portata, che giunge fino al bianco assoluto della carta, di cui abbiamo parlato relativamente alle incisioni prima stagione, e in modo più marcato nei paesaggi boschivi intorno al 1995, si sia evoluta, trovando anche corrispettivi nel nero, in morfemi di varia estensione, in macrosegni dinamici e soprattutto in vere e proprie strie o nastri che con le loro fluttuazioni ed evoluzioni nello spazio, che è poi spesso e idealmente un luogo riposto se non proprio un antro, finiscono col delineare grovigli, circonvoluzioni, rabeschi ed enigmatiche figure, talora di apparenza totemica, talaltra di cifra grafica extrasimbolica ed extrasemantica, ma certo suscitatrice di memorie archetipe. Si tratta dell’evoluzione del segno nel senso di una “scrittura” per la quale Tognarelli stesso introduce parole come arcano o arcaico, e che in non pochi casi si fissa in veri e propri ideogrammi di scioglimento evidentemente poetico. Si capisce la suggestione poetica che in Le ottave del vento del 2007 gli ha fatto intuire la natura musicale di quella scrittura formante della luce, e scorgere uno strumento musicale nell’ideogramma che il vento, come fosse un’arpa eolia, percuote cavandone suoni in ottava. La sinestesia istituita con la traduzione sonora di una forma visiva, mi par esprimere bene il tipo di conoscenza intuitiva e poetica della realtà, alla quale Tognarelli ormai accede con lo strumento analitico dell’incisione, avendo distratto lo sguardo dalle apparenze sensibili per sintonizzarlo con i moti dell’animo suscitati dall’immagine latente e imprevedibile che la mano sapiente va lentamente sottraendo al caos originario dei segni. Nicola Micieli 2015 |