Gianfranco Tognarelli

 

SALETTA D’ARTE A5  1976    Pontedera

Fa piacere incontrare ancora qualche giovane che sa credere nel proprio lavoro e che a questo lavoro non vuol dare per forza il piglio dell’avanguardia a tutti i costi! Si tratta, in questi casi, di artisti aperti ad un certo avvenire pittorico proprio perché non danno nulla per definitivamente acquisito o per dogmaticamente valido, e si dimostrano disponibili per meditate operazioni culturali. L’esperienza scolastica - di studio e di esercizio – sta evidentemente alle loro spalle, ma essa va considerata come un serio lavoro di verifica e di scoperta, alimentata dai primi fondamentali  incontri con la pittura dei maestri e soprattutto delle prime intuizioni critiche personali che su quelle scoperte seppero innestare fruttuosi esperimenti formali e coloristici.

Tognarelli  non ha tradito l’impressionismo francese e la lezione di Cezanne per approdare prematuramente alle spiagge dell’informale, ma in quelle poetiche innovative e pur classicamente tradizionali egli si muove ancora con acuto senso critico e con disinvoltura culturale, conscio dei rischi di certi passaggi ingiustificati ed illegittimi ma anche dell’impossibilità di poter vivere di rendita sullo splendore del passato. Natura apparentemente quieta, alieno dalla virulenza deformante di certo espressionismo e dei suoi marcati riflessi neorealistici, egli evita intenzionalmente il gioco psicologico dell’introspezione (suo e della realtà) per dedicarsi alla fruizione immediata e, quindi, alla sottile analisi dei colori. Per lui tutta la realtà è colore, cioè luce che si fa materia e volume. E su questa strada procede per tentativi, prove,soluzioni.

E’ legittimo che in questa fase del suo lavoro riemergano autori e scuole(da Bonnard a Morandi), ma il punto centrale del suo operare (che è quello poi che giustifica una nostra fiducia critica) è lo scavo che egli fa delle sue esperienze coloristiche, l’attenzione da professionista serio che egli dedica ai suoi processi compositivi, ai suoi passaggi tonali, ai suoi spazi esistenti solo come colore, e in questa operazione l’emozione rimane sempre contenuta e corretta, senza sbavature e cedimenti, comunque tale da non violentare ed esasperare volumi e tinte. Anche se la sua vicenda non si è chiarita del tutto, intendo dire quanto a risultati definitivi, i passaggi di questi ultimi tre anni segnano spostamenti importanti e rilevanti rotture nella sua produzione: alla vecchia e calda luce dei primi paesaggi (molto belli se letti in chiave toscana e se ci si appagasse di una tavolozza di alta dignità formale) si stanno contrapponendo giustamente contrasti coloristici che prefigurano novità e arditezze di impaginazione, pur nel rispetto di certe atmosfere tenere tipiche ancora dei primi “ nudi” o delle luci filtranti delle prime “nature morte” così figurative ma anche così libere e autonome, così ricche di sapienza e di malinconia. Ora finalmente la “donna del ritratto” può immergersi nel suo rosso con più coraggiosa motivazione cromatica o il “verde del giaccone” può vivere dei suoi autonomi riflessi: il vigore è qui evidente, come è evidente il suo rifiuto di fare cronaca facile o racconto sdolcinato. La pittura è per lui solo squarcio di verità luminosa, sintesi di luce che crea e ricrea gli oggetti, fuori da qualsiasi compiaciuta narrazione prosastica. I contenuti paiono non esistere “prima” e “in sé”, ma esplodono da e per il colore che li fa essere, per l’emozione sotterranea ma prevalente che da loro una ragione e un senso.

Dovendo evitare l’astruso psicologismo e il facile naturalismo, il suo cammino non può essere che difficile, essendo egli costretto a districarsi tra gli allettamenti ora della deformazione interiorizzante ora della bella riproduzione esteriore (anche le acqueforti vivono su questa meditazione del “vero”, a cui il tratteggio morandiano  da luce e valore figurale ma anche un sottile velo di magica irrealtà). Forse potremmo chiederci perché  una qualche rabbia ideologica non promani da questa “natura” docile e quasi buona e un qualche visibile tormento esistenziale non turbi dall’interno le sue immagini, ma evidentemente il suo pensiero non vuole giungere ad inquinare la tela, quasi che la commozione sia trattenuta come una felicità liberatoria ma tutta interna e l’atto del dipingere non possa subire profanazioni contenutistiche esterne e forzate. Ognuno ha il proprio ritmo operativo e il proprio respiro lirico: importante è rimanere fedeli alla propria sensibilità, alla personale capacità di interpretazione del mondo e dei suoi problemi.

Per l’affinamento di queste capacità di “interpretazione” Tognarelli  continua giorno dopo giorno la sua “ricerca”. Ci auguriamo che la fase delle scoperte e delle verifiche continui, perché la drammatica tensione della ricerca è d’obbligo per chi voglia fare sul serio il mestiere di pittore. E Tognarelli mi pare sia tra questi.

                                                                                                                         Dino Carlesi  (1976)

 

La pittura dì GIANFRANCO TOGNARELLI ha subito cambiamenti così profondi da indurmi a tentare - almeno per me - una spiegazione che la giustifichi emotivamente e stilisticamente. Ricordo bene i suoi piccoli paesaggi degli anni ottanta dagli impasti caldi e densi, così legati ai nostri Macchiaioli, ma anche così antiaccademici in virtù di una attenzione precisa del Tognarelli verso i nuovi , linguaggi nei quali non si avventurava ma di cui comunque avvertiva la moderna tensione. Mi parve allora che il suo percorso dovesse svolgersi secondo linee operative molto tradizionali, data anche la preparazione tecnica acquisita con disinvoltura e bravura negli anni dell'Accademia. Pareva, il suo, un dialogo pacato e attento con una “natura” germogliante luci e incanti, condotto quasi per scoprire le gentilezze dei toni e i segreti luministici che tra fronde e tronchi si celavano.

Ma l’impegno e la ricerca di Tognarelli dovevano condurre ad opere di più vasto impegno formale, quasi la semplice trascrizione figurale non fosse appagante a sufficienza, e nuovi turgori concettuali affluissero e spingessero verso direzioni diverse e più compositive: e così avvenne alcuni anni fa. I "ritratti", sempre eseguiti con puntiglio descrittivo ma mai con pedanteria analitica (ricordo "Ritratto" del 1985 e la tempera "Beatrice" del 1986), erano ancora tenacemente realistici, biograficamente legati ad una psicologia e ad un ambiente che — per così dire — ne limitavano (solo per certi aspetti, perché per altri mi parevano dei documenti di alto interesse pittorico, addirittura da non abbandonare e rinnegare!) la portata storica e la dimensione corale. Evidentemente stava nascendo nell'artista l’urgenza dì altre e diverse simbologie, e le figure doveva  caricarsi di storia e di allegorie, quasi il sogno interno orientasse verso un’interpretazione del reale che fosse meno oggettiva e più sublimante in direzione onirica. Era il momento      in cui nasceva un nuovo senso scenografico, con flauti e lune e giovani aedi che infoltivano i nuovi boschi per creare scene di più classico vigore attraverso sequenze più magiche e irreali. Ma forse cambiavano i risultati lirici perché stava cambiando il modo di cogliere il rapporto uomo-storia. Infatti dall'89 ad oggi la figura si è dominante collocata com'è in atmosfere al limite della metafisica ("Al mare", 1990), con simboli animali o vegetali rispondenti a precisi intenti espressionistici, in cui la gestualità dei personaggi o l'enfaticità delle pose o la crudezza cromatica contribuiscono a dar vita ad una nuova pittura ormai riconducibile a tensioni e ricerche coloristiche di tipo orfico, dai toni complementari e contrastanti, che non hanno quasi più nulla a che vedere col vecchio impressionismo toscano.

Ma anche questa seconda fase appare in crisi, tanto urgente è il bisogno dell'artista di uscire continuamente dai modelli abituali per tentare soluzioni diverse. Nelle ultime tele la "figura" rimane dominante anche se l'intento plastico appare più determinato e nuove esperienze sembrano ritornare alla memoria (il cubismo? Delaunay?), ma lo sfaldamento cromatico rende di nuovo astoriche queste figure chiuse nel lampeggiare del verde ("Nel verde", 1992) o avvolte in nuove lingue di fuoco ("Figure con fuoco", 1993), quasi la scioltezza della materia e il suo dispiegarsi e unirsi con l'ambiente tendesse a ricondurre le persone ad una loro naturalità di origine ma anche a caricarle di una simbologia intellettuale che tradisce aspirazioni, problematiche e nuove misteriosità. La fase attuale è forse — anch'essa — provvisoria: l'augurio è che Tognarelli non dimentichi del tutto le qualità vigorose della sua pittura iniziale e che i significati via via sopraggiunti non offuschino una felice disposizione al canto e la grazia tonale di cui è naturalmente dotato.

 

Dino Carlesi